martedì 10 novembre 2015

Io ci credo

Torno in questa mia stanza virtuale a distanza di un anno. E lo faccio per parlare ancora una volta dei miei giovani di "Quando intrecciavamo fiori": oggi, dopo una lunga gestazione, è arrivato infatti il booktrailer di un romanzo che continuo a ritenere profondamente, disperatamente, gioiosamente attuale.


A trentaquattro anni compiuti posso considerarmi una specie di adulta, o almeno una che cammina sul crinale. Vedo nuove generazioni che a volte mi sembrano molto distanti da me; poi guardo alla mia adolescenza, all'adolescenza vissuta dai miei amici e mi dico che non vale la pena di cadere a mia volta nell'errore del farmi abbagliare dal vestito che nasconde l'uguaglianza. Dell'accettare la divisione che nasconde comunione e vicinanza.
Credo nell'essere umano. Credo nei giovani. Credo nei bambini.
Spaventati, fragili, incompresi per mancanza di voglia di ascoltare, eppure sempre, capaci di lottare, amare e sognare: è per questo, in fondo, che esistono - per portare avanti il sogno.
Anche se in Italia un e-book non arriva lontano, vorrei che questo libro potesse parlare a tutti loro e dire: "Credo nella bellezza che c'è in ognuno di voi. Sono sicura che ce la faremo".
Certo che ce la faremo.
A non farci parlare addosso dagli altri, che vogliono spiegarci chi siamo e che non siamo all'altezza delle loro aspettative (quando sono loro a non esserlo).
A fare le pernacchie ai politicanti e ai benpensanti che si riempiono la bocca di bei discorsi sui giovani e poi ci sbattono le porte in faccia senza neppure guardarci.

A ridipingere il mondo con i colori che ci appartengono, a costo di dover grattare via l'intonaco vecchio e scrostato - a costo di creare i nostri colori con le erbe e la terra, se le scorte non ci vengono recapitate.
Io ci credo.

giovedì 25 settembre 2014

Voglio continuare a intrecciare fiori

Oggi il mio romanzo Quando intrecciavamo fiori fa il suo ingresso nel web.
E' un romanzo la cui idea è nata parecchio tempo fa, e che è stato ultimato qualche anno fa; gli sono succeduti altri due romanzi, uno già terminato e l'altro in fase di realizzazione. Posso dire che rappresenti una fase della mia vita che si è conclusa.
Eppure gli sono particolarmente affezionata, e sono felice ed orgogliosa della sua uscita. Adesso vi spiego perché.
Proprio ieri ho incontrato per caso una mia cara amica d'infanzia, una ragazza sveglia e intelligente, che brillava tra i nostri coetanei. Anche lei precaria, anche lei in cerca di quel posticino nel mondo che sembra sempre più difficile da trovare, nonostante gli sforzi.
Mentre parlavamo del modo umiliante in cui spesso vengono trattati i giovani della nostra generazione (ma non solo loro) ha detto una frase che mi ha molto colpita: "Si vede come si ridimensionano le aspettative".
Come a dire che al futuro che sognavamo, cui sentivamo di appartenere di diritto, ormai abbiamo dovuto tutti rinunciare.
E invece no. Non voglio che sia così.
Tutti, nella nostra società e nel mondo, abbiamo il diritto di sognare e di pretendere una vita che sia all'altezza delle nostre aspettative, almeno quando ci impegniamo per realizzarle.
Quando intrecciavamo fiori parla di una generazione che non si è arresa, che nonostante tutto non ha voluto ridimensionare le proprie aspettative, e che cerca di rimboccarsi le maniche per far sì che sia il mondo a sollevarsi fino a quell'altezza, anziché il contrario.
E io voglio credere, voglio sperare, voglio dare il mio contributo affinché sia così.

mercoledì 13 agosto 2014

Tutto il midollo della vita

A nessuno importerà che ne scriva anch'io.
Tutti, là fuori, ne stanno parlando, e aggiungere la mia voce a questi milioni di voci non farà alcuna differenza.
Ma glielo devo.

Robin Williams è morto due giorni fa.
E neanche questo farà una gran differenza per la maggior parte dell'umanità, occupata a cercare di sopravvivere fino a domani, e poi per un altro giorno ancora, come quasi nessuno si accorge che il cielo fa meno luce quando si spegne una stella.
Per molti sarà solo una notizia in più, da scrivere o da leggere, e poi da oltrepassare, come si oltrepassa un cartello segnaletico mentre si percorre la propria strada, persi nella propria vita.
Ben presto ci saranno nuovi film, e nuovi attori, e la Storia che va avanti.

Eppure, se il nostro essere qui ha un senso, credo stia nel fatto che per qualcuno, anche solo per un'unica inguardata creatura, il nostro passaggio abbia significato qualcosa.
Robin Williams è stato - è - il mio attore preferito. Il mio idolo adolescenziale, quando le mie compagne di scuola appendevano poster di Raoul Bova in classe e io sognavo di volare fuori dalla finestra in compagnia di quel Peter Pan adulto che aveva conservato i suoi pensieri felici.

I suoi film hanno teso la mano alla mia anima e l'hanno aiutata a spiccare il volo proprio quando aveva bisogno di parole che la aiutassero a volare.
Non sono mai riuscita ad accettare che quei personaggi fossero "solo" personaggi: troppo forte e precisa la personalità che riusciva a dare ad ognuno, dandomi l'impressione che, nella loro diversità, andassero a comporre tutti assieme la verità di quell'unico, inimitabile essere umano che aveva dato loro voce, forma e soprattutto sguardo - quello sguardo incredibile, profondo, antico, capace di agganciare l'Oltre.
E continuerò a credere che Robin Williams fosse esattamente questo: un poeta, un sognatore, un delizioso folle; un uomo che amava tanto e soffriva tanto, capace di sdraiarsi nell'erba per vedere le stelle ed emozionarsi come un bambino, in perenne lotta - come tutti i grandi innamorati della vita - per rimanere in piedi tra paradiso e inferno, tra il rumore della folla e il silenzio dell'anima.

Ho sempre pensato all'ironia del fatto che, tra i tanti libri letti, fosse stato un film ad imprimere alla mia vita la sua svolta più importante, donandomi il desiderio di essere me stessa e inseguire i miei sogni e regalandomi delle citazioni che erano vere e proprie indicazioni di vita (tra cui la profetica "Andai nei boschi perché volevo succhiare tutto il midollo della vita... e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto"); eppure ho sempre voluto riconoscere all'Attimo fuggente, e a colui che in modo sublime aveva incarnato l'ideale del professor Keating, questo ruolo fondamentale per me.
Così come ora, in questo blog vuoto ed echeggiante, in cui è tanto strano parlare solo per riascoltare la mia voce, so di dovergli il mio ricordo.

Grazie, Robin Williams.




martedì 14 maggio 2013

Delle gravidanze (letterarie e letterali)

Succede quando hai appena pubblicato un libro. Che hai meditato per un sacco di tempo, al quale hai dedicato le tue energie e i tuoi ritagli di tempo libero degli ultimi tre anni, sulle cui bozze hai lavorato negli ultimi dodici mesi, otto dei quali divisi tra il libro e una gestazione nel senso letterale del termine - e quindi con tutte le stanchezze, lo stress, la caterva di esami e visite che si dicono necessari per una cosiddetta "gravidanza fisiologica".
Succede quando sei a tre settimane dal parto, e te ne vai in giro con la tua pancia bella tonda, intimamente contenta di dare vita, di sentirti parte del ciclo della Vita stessa e allo stesso tempo infastidita dai luoghi comuni e le frasi fatte che già piovono sulla povera creatura che verrà, ancor prima che metta piede in questo mondo che non si sa più nutrire di parole.
Improvvisamente, ti rendi conto di due cose.
La prima è che il tuo status di Futura Mamma - ottenuto, se vogliamo proprio essere sincere e senza nulla togliere al miracolo della vita nuova, con sforzo minimo - surclassa il tuo status di scrittrice, quello che ti sei sudata per vent'anni della tua vita, e che - in quanto giovane scrittrice - ti trovi a dover difendere giorno dopo giorno da eserciti di livorosi, professoroni, scettici, indifferenti e più in generale rompipalle. Non solo lo surclassa: lo mette in ombra. Non solo lo mette in ombra: lo annulla. Poco importa quello che sei, che sei stata, che vorresti essere: l'immagine che improvvisamente tutti associano a te è quella della mamma mulinobianco, che sorride mentre spruzza la casa di antiacaro, pulisce volenterosa la cacca della nuova generazione rampante e in cambio la imbottisce di prodotti preconfezionati ma tanto tanto colorati. Tu, che ti sei preparata per tempo a rispondere a domande sulla tua carriera, i tuoi sogni, la nascita del tuo bisogno di incidere la carta con le tue emozioni, ti trovi a rispondere ogni giorno solo ed esclusivamente alle fatidiche domande: "Quanto manca?" e "Come la chiamerete?".
La seconda è che, del fatto che oltre ad una pancia tu abbia un cervello, un cuore e quant'altro, non gliene frega niente a nessuno.
Vedi i tuoi colleghi maschi, con o senza prole, che continuano ad essere considerati prima di tutto persone.
Riguardi il film della tua vita a ritroso e noti:
- che i livorosi che ti hanno messo i bastoni tra le ruote sono perlopiù maschi adulti, e di una certa età
- che in tutte le realtà in cui hai lavorato i posti di potere erano occupati da maschi
- che ai tuoi coetanei appartenenti al sesso maschile la società sembra dare un certo credito, quando a te capita che persone che non hanno manco letto un tuo libro ti facciano delle critiche solo perché ritengono che a una persona della tua età sia opportuno farle ("Non sia mai che le venga l'idea di continuare ad esprimere le proprie idee, c'è il rischio che risultino più interessanti delle mie")
Ed ecco che proprio tu, che non hai mai dato grande importanza alle questioni di genere, senti che forse essere donna è ancora, tutto sommato, un peso.

martedì 20 dicembre 2011

Sotto il pelo dell'acqua - la cultura sommersa

Patrizia Mucciolo - Le ombre azzurre, ed. Io Scrittore, 2011 (e-book) Presentazione sul sito di Io Scrittore
Roberto Turrinunti - Estanislao Kowal, ed. Il Ponte Vecchio, 2011 Booktrailer a cura di Rosalia Raineri e Debora De Angelis
Angelo Di Liberto - Di questa vita, in pubblicazione a puntate sulla webzine Kultural, 2011 Leggilo!
Rosalia Raineri - Un buco nell'eternità, ed. Miele, 2010 Booktrailer

Inizio con un elenco di libri che ho letto o ho intenzione di leggere prossimamente la rubrica "Sotto il pelo dell'acqua", dedicata alla cultura sommersa: tutte quelle esperienze che, per un motivo o per l'altro, non sono (ancora?) state conosciute o riconosciute dalla nostra società.
Libri, opere d'arte, ma anche esperienze di vita che molto spesso hanno un solo difetto: quello di sottrarsi ai canoni imposti dalla società.
Vite e opere troppo lente o troppo profonde, e perciò non etichettabili dalla società della catena di montaggio, quella che produce miliardi di etichette tutte uguali da appiccicare su ciò che scorre sul nastro.
Qualcuno potrebbe pensare che a determinare i sommersi ed i salvati sia la qualità dei secondi e la scarsa qualità dei primi, ma purtroppo non è così. Nella nostra società non vige la meritocrazia, ma la clamoricrazia: vince chi urla più forte e chi urla più "a tempo con la moda".
Della cultura sommersa iniziai ad occuparmi anni fa con la rubrica La foresta che cresce, che un direttore illuminato mi permise di tenere in prima pagina sul quotidiano l'Adige: raccontai quell'ampia fetta di mondo giovanile che fa, che si impegna, che ha sogni e aspirazioni, totalmente ignorata da una massa mediatica assetata solo di sangue e cattiveria.
Oggi la rubrica non c'è più. I sommersi, però, continuano a vivere e ad operare - e con loro la speranza che il mondo continui ad essere colorato, pieno di diversità, ricco di speranza.

mercoledì 7 dicembre 2011

Costruire il male quotidiano

Non amo la spettacolarizzazione, neanche quella della parola. Per questo sono piuttosto restia a utilizzare frasi ad effetto... che so, come "una tragedia evitata", "la curva assassina", "avrai gloria eterna" e così via. Mi sembra che le frasi d'effetto, oltre ad essere manifestazione di una debolezza intrinseca dello scrivente - incapace di portare sulla carta le emozioni e per questo assetato di magniloquenza -, rappresentino una sorta di tradimento nei confronti della verità.
Per questo ultimamente, quando mi sono trovata a parlare della "banalità del male" riferendomi a un certo modo di sfruttare i giovani, al tempo stesso mi sono scoperta a mordermi la lingua.
Eppure... Accidenti, non voglio spettacolarizzare, ma non posso fare a meno di pensare al concetto così ben espresso da Hannah Arendt. L'idea che il cosiddetto "male" sia in realtà, prima di tutto, un fatto assolutamente quotidiano, praticato da tante brave persone la cui unica colpa potrebbe essere quella di non voler pensare abbastanza, di non voler vedere abbastanza, di non voler capire abbastanza.
La Arendt ne parlava a proposito dei tanti tedeschi qualunque che non volendo pensare, vedere, capire, furono corresponsabili della Shoah. Ci furono gli aguzzini, ci furono coloro che uccisero, torturarono, progettarono un eccidio. Ci furono tantissimi bravi padri (e madri) di famiglia che si limitarono a proseguire la loro brava vita, annaffiando le proprie rose, leggendo le fiabe ai propri figli e portando a spasso il cane, mentre tutto questo si compiva. La loro partecipazione attiva al Male fu così piccola che magari si limitò alla coesistenza con qualcosa di cui intuivano la presenza ma non volevano vedere l'enormità; ad uno sguardo di disprezzo, a un minimo aiuto negato, ad una parolina detta per sbaglio alla persona sbagliata che fece scoprire ebrei rifugiati. Gesti minuti - i "quasi niente" che nutrirono, assecondandola, una tragedia.
Se tutti avessero voluto pensare, vedere, capire, forse le cose sarebbero andate diversamente.

Nel mondo il male continua ad annidarsi nella vita quotidiana, e fa parte dei tanti piccoli mattoncini con cui si costruiscono le catastrofi.
Ci penso anche quando vedo il modo in cui vengono sfruttati i giovani in Italia perchè, anche in questo caso, un grosso problema (per alcuni una vera e propria tragedia) viene alimentato dalle tante piccolissime azioni scorrette di bravissimi padri (e madri) di famiglia.
La segretaria ha ricci composti, un'espressione caritatevole. Siede nel suo sicuro ufficio da dipendente a tempo indeterminato, tra le piante fiorite e i disegni dei nipoti. Sorride quasi con tenerezza mentre ammette: "Sì, in effetti - non dico che sia giusto, ma è così - si tende un po' a considerare i collaboratori a progetto quelli che si possono... non dico sfruttare, no, ma impiegare anche più del dovuto. L'altro giorno se n'è andato un collaboratore che era con noi da tre anni e gli hanno fatto una festona... quasi come se fosse andato in pensione un dipendente vero! Il giorno dopo tutti si sono resi conto che mancavano due persone invece di una, che lui per tre anni aveva fatto lavoro per due!".
Ultimamente ho ascoltato raccontare e visto verificarsi tanti piccoli episodi del genere, e ne sono rimasta sconvolta. Uomini e donne maturi, assolutamente regolamentari - i nostri vicini di casa, i genitori dei nostri coetanei - che, aderendo senza farsi domande a un generale "è così, quindi dev'essere così", danno per scontato che i giovani che lavorano alle loro dipendenze o nei loro uffici siano strumenti e non persone. Che dispensano con leggerezza promesse di assunzione, che fanno fare stage di sei mesi gratuiti senza alcun progetto, e quindi totalmente inutili, dando per scontato che gli stagisti esistono solo per essere usati, che sfruttano il lavoro dei giovani desiderosi di compiacere in cambio di una paga che mai arriverà - pronti a sostituirli non appena chiederanno il loro giusto compenso - , che trattano i contrattisti da moderni schiavi.
Non sono tutti così, ma sono in tanti. Troppi.
Qualcuno di questi maturi signori si difenderà dicendo che da che mondo è mondo i giovani devono fare "gavetta", che noi siamo dei bamboccioni viziati che vorrebbero subito il posto sicuro e ben pagato.
Non sto parlando del "fare gavetta", e i maturi signori lo sanno benissimo. Solo, non vogliono pensare, vedere, capire.

martedì 29 novembre 2011

La storia del soldato che riparò il grammofono

I libri non sono generi deperibili. Quando senti che è arrivato il momento di leggere un libro, ecco, quello è il primo istante in cui quel libro esiste. Per questo i libri sono sempre attuali: perché per qualcuno ci sarà sempre il Momento Giusto in cui leggerli.
Mi piace trovare i libri al Momento Giusto: andare in biblioteca, scegliere uno scaffale a caso e iniziare a leggere i titoli, a guardare i dorsi delle copertine, fino a quando un libro non mi chiama. Funziona sempre.
Così ho trovato La storia del soldato che riparò il grammofono di Saša Stanišić.
Non è facile descrivere un libro che scorre oltre gli argini, in cui le parole sono oggetti, immagini e sensazioni così forti da lasciare senza fiato. Un romanzo simile alla Drina, il fiume che attraversa i Balcani, che da sempre ne lambisce le campagne pigre e i villaggi sofferenti, i villaggi pigri e le campagne invase dalla solitudine, raccogliendo di ogni guerra i cadaveri, di ogni ponte gli sguardi dei bambini.
La trama, semplicissima. Alexandar è bambino ai tempi della guerra bosniaca; fuggito con la sua famiglia in Germania, dopo dieci anni di oblio e "integrazione" sente il bisogno di tornare indietro, di completare ricordi lasciati incompiuti, ridando così senso alla propria vita e alle vicende di un'intera comunità, quella di Višegrad, la sua cittadina natale devastata dal genocidio.
Tutto qui. Eppure nel romanzo, di questo, si trova ben poco.
Si trovano le vicende della pace e della guerra: le morti, le partenze e i ritorni, i racconti degli adulti e degli altri bambini, come quello di Asija, pallida e dai capelli di un biondo chiarissimo, sfuggita al massacro di un intero villaggio. Vicende troppo grandi, o forse troppo piccole, per l'interiorità di un bambino come Alexandar, che le deve trasfigurare con la fantasia, grazie alla bacchetta magica e al cappello regalatigli dal nonno Slavko poco prima di morire, per renderle della dimensione giusta.
In un continuo rimando tra reale e immaginario, tra presente e ricordo, tra mondo esteriore e mondo interiore, in lampi di lancinante poesia, la verità su ciò che ne è stato del villaggio e dell'infanzia di Alexandar emerge con impietoso realismo.
Saša Stanišić (Višegrad, 1978), che con la pubblicazione del suo primo romanzo (nel 2007, edito in Italia da Frassinelli) La storia del soldato che riparò il grammofono si è dimostrato uno scrittore già perfettamente formato, è riuscito a trasformare una vicenda umana precisa in un affresco dedicato alla vita dell'essere umano, alle sue minuscole gioie, al rincorrersi delle guerre, al suo essere intreccio indissolubile di bene e male.
Se potessi, continuerei. Ma sarà lui a spiegare cosa c'è di misteriosamente bello in ciò che scrive, e lo farà meglio di me.

"Ogni due minuti si spegne la luce nella tromba delle scale. Per alcuni secondi l'oscurità copre l'attesa. Non abbastanza da poter distinguere le sagome. Subito qualcuno riaccende la luce. Ogni oscurità è una breve scomparsa, una piccola guarigione. In uno di questi secondi scuri Asija sussurra: non dimenticarmi! Il dimenticare mi solletica il lobo dell'orecchio, non so perché lo dica, perché lo dica ora, non so cosa devo risponderle.
La luce torna a vivere, Asija si attorciglia i capelli sul dito, le lacrime hanno disegnato vene sullo sporco delle sue guance.
Quando i tubi al neon si riaccendono - ogni volta un grande strizzar d'occhi, ma nessun risveglio. I soldati non scompaiono, si tolgono gli stivali e si guardano le dita dei piedi. L'attesa non finisce".